Traduzione a cura di Michele Fazioli per LAPAZ dall’articolo “Mujeres Zapatistas : Non vamos a defender a Todas” di “PIEDEPAGINA”
Come raccontare tutto quello che è successo nel Secondo Incontro delle Donne che Lottano (il primo organizzato da tutte le zapatiste nella loro totalità)? Questa è la cronaca di quattro giornaliste di età e modi di vedere il mondo differenti. Uno sforzo collettivo per restituire una visione caleidoscopica. Su una cosa sono tutte d’accordo: il “compito” inevaso è l’autogestione.
Testi:
Ángeles Mariscal,
Daliri Oropeza,
María Ruiz
Daniela Pastrana
ANGELES MARISCAL
I. Mio figlio fa le torte di mais, mia figlia spacca anche la legna
CARACOL MORELIA, CHIAPAS:
Essere una donna indigena, dicono gli esperti, è un doppio svantaggio in una società capitalista, classista e patriarcale.
Però le combattenti dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) si sono ribellate all’idea che “l’origine è il destino”: senza clamore, in modo appena percettibile, oggi lo dimostrano da tre generazioni, nonostante siano coscienti che la strada da percorrere sia ancora lunga.
Guadalupe ricorda che lei e le sue tre sorelle non erano state ben accolte dal padre, un indio Tsotsil che voleva un figlio maschio. È nata nel 1979 nelle campagne tra Altamirano e Ocosingo [città dello stato del Chiapas – ndt], regione dove governavano i cacicchi e la popolazione indigena e contadina viveva in una situazione di semi-schiavitù. Erano gli anni in cui iniziava a prendere forma quello che nel 1994 sarebbe diventato l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Il padre di Guadalupe si unì al movimento e da lì tutto è cambiato.
Quando aveva 15 anni, ha partecipato come combattente (esercito attivo) all’Insurrezione, e da allora la sua lotta per cambiare le strutture sociali e familiari non si è fermata.
Combattente, moglie, madre, figlia, membro della Giunta di Buon Governo della zona, infine base di appoggio. Nei 26 anni trascorsi dal 1994, Guadalupe ha ricoperto diversi ruoli e incarichi all’interno del movimento zapatista. Dall’essere monolingue, è passata a parlare tre lingue.
La sua voce non ha smesso di essere morbida, così come i suoi lineamenti. Lo scorso Capodanno ha dovuto coordinare uno dei comedores realizzati per i festeggiamenti dell’anniversario dell’insurrezione armata nel Caracol 4 “Torbellino de nuestras palabras”, [Turbine delle nostre parole – ndt]
La vita che ho vissuto fa ancora male
La vita che ha vissuto sua madre e la sua infanzia la feriscono ancora. Lo si vede dagli occhi che si inumidiscono quando ne parla. Dopo essere diventata zapatista, “la situazione è cambiata. Adesso ho dei fratelli minori che sono cresciuti in modo molto diverso dal nostro […] Ho due figli e una figlia; e non insegno a lavorare solo a mia figlia, lo insegno a tutti e tre. Non è solo mia figlia a lavare i piatti, le mie figlie e i miei figli devono saper fare entrambi i compiti. Mio figlio fa le torte di mais, mia figlia spacca anche la legna”.
Araceli, sua figlia, dice che vuole visitare altri paesi. Imparare. Conoscere.
Guadalupe aggiunge: “La sua vita adesso è migliore di quella che vivevamo io e mia madre. Mia madre ha sofferto la metà in più di quello che ho sofferto io. Mia figlia vive meglio adesso”.
Riconosce anche che all’interno del movimento zapatista ancora non si sia raggiunta la parità. “Ci sono ancora compagni ai quali non entra in testa che le donne abbiano dei diritti. Ma non tutti, solo alcuni”.
La battaglia interna
Daniela, un’altra combattente delle EZLN, è d’accordo sul fatto che una delle principali battaglie delle donne zapatiste sia quella interna.
L’obiettivo di una donna zapatista, dice Daniela, è continuare a imparare, occupando più posti possibili. Dove c’è un uomo, deve esserci anche una donna. “Che diventi consuetudine che nella nostra società come zapatiste, uomini e donne, tutto ciò che abbiamo sia uguale. Perché abbiamo ancora bisogno di lavori che solo gli uomini possono fare, ma sogniamo che un giorno le donne sappiano fare tutto: capire, pensare e fare”.
Come ottenerlo? La prima cosa, risponde Daniela, “è convincersi che ce la si può fare, perdere quella paura”.
Cosa manca, cosa avanza
L’onnipresenza delle donne zapatiste non è maggioritaria. Nella distribuzione degli incarichi e delle responsabilità, nelle discussioni e nel processo decisionale c’è equità.
Ma nonostante questo, i portavoce sono uomini, e soltanto le comandanti Ramona, leader morale del movimento, ed Esther, che il 28 marzo 2001 ha pronunciato il discorso ufficiale dell’EZLN al Congresso dell’Unione [Congresso Generale degli Stati Uniti Messicani, corrispondente al Parlamento italiano – ndt] hanno avuto risalto mediatico.
Altre hanno tenuto discorsi cerimoniali o incontri con vari settori. Forse manca, come ritengono le donne, perdere la paura, osare parlare, occupare più incarichi e spazi pubblici. E chissà che non avanzi del protagonismo maschile.
Adesso, tocca a loro organizzare il Secondo Incontro Internazionale delle Donne che Lottano, che si svolge nello stesso Caracol 4, pochi giorni prima dell’anniversario dell’Insurrezione.
Parlano poco, quasi per niente. In modo pubblico, solo le parole di benvenuto che ha dato la Comandanta Amada e le conclusioni dell’incontro. Ma sono onnipresenti. Guardano, ascoltano, registrano, annotano ogni parola che viene detta. E mantengono fertile la terra.
DALIRI OROPEZA
La speranza
Esperanza è una bambina zapatista. È in mezzo al campo da calcio improvvisato. Le combattenti aspettano a bordo campo. Quindi, prendono i loro bastoni e iniziano un’esibizione di cumbia, dopo la quale rimane solo il silenzio e l’apprezzamento dei partecipanti.
È l’inaugurazione del secondo Incontro delle Donne che Lottano. Dal palco, le donne della Comandancia e del Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno (CCRI) osservano attente.
Esperanza è sola con la sua bambola di pezza, in piena trepidazione. Un paio di volte la corrente va via. Si accovaccia, accende una candela e abbraccia la bambola.
Le donne combattenti marciano al ritmo della cumbia e iniziano a riprodurre la spirale di un caracol. Trottano in cerchio intorno alla bambina zapatista. Le fila delle combattenti crescono, mentre le donne in divisa con il passamontagna disegnano una spirale intorno a lei.
Quelle che rimangono in disparte imbracciano un arco.
– “Mirate!” Risuona la voce della zapatista responsabile della formazione.
– “Riposo!”
Le zapatiste ripetono tre volte la posizione di attacco. Non tirano mai.
Sono circa 500. La maggior parte ha tra i 15 e i 18 anni. Gli occhi e la statura delle giovani donne rivelano che hanno appena iniziato il loro percorso all’interno delle EZLN.
Cosa vogliono le combattenti
“Noi zapatiste non vogliamo la violenza, quello che vogliamo è lottare per coinvolgere tutti, per difenderci, per organizzarci. Certo! Perché se nessuno parla, nessuno cerca il modo per cambiare il malsistema. È per questo che abbiamo detto che avremmo chiamato a raccolta fratelli diversi da luoghi diversi. Porre fine al malsistema perché non ci vogliono come indigene”, spiega Lucia, una delle coordinatrici dell’incontro che viene dal Caracol La Realidad.
Tutte le zapatiste che realizzano le formazioni intorno ad Esperanza sono in carica da meno di due anni. Tutte hanno scelto di far parte delle forze delle EZLN e parlano tutte della loro volontà di difendere la terra e di difendersi come donne.
Il messaggio delle zapatiste è che non vogliono più la violenza sulle donne. Per questo Esperanza è protetta dalle combattenti con la spirale di un caracol.
“Non vogliamo più sentire che continuano ad essere maltrattate, a scomparire, addirittura fatte a pezzi e storie del narcotraffico … Lo vediamo già per conto nostro. Se non ci organizziamo, se non ci difendiamo, succederà anche a noi. Quindi denunciamo. È la motivazione per tenere il secondo incontro … Che si organizzino … Come? Facendo movimento, riunendosi, nessuno verrà in nostro aiuto, dobbiamo cavarcela da sole”, dice Lucía.
Pertanto, l’asse di questo secondo incontro è la violenza contro le donne. All’inaugurazione, la Comandanta Amada afferma che la difesa delle donne sarà con il proprio corpo, se necessario.
“Sorella e compagna: dobbiamo difenderci. Difenderci come individui e come donne. E soprattutto, dobbiamo difenderci organizzate. Sostenerci a vicenda. Proteggerci l’un l’altra. Difenderci tutte. E dobbiamo iniziare subito”, dice la Comandanta al microfono.
“Perché il nostro dovere come donne che lottano è proteggerci e difenderci. E ancor di più se la donna è solo una bambina. Dobbiamo proteggerla e difenderla con tutto quello che abbiamo. E se non abbiamo più niente, allora con bastoni e pietre. E se non ci sono né bastoni né pietre, allora useremo il nostro corpo. Dobbiamo proteggerci e difenderci con le unghie e con i denti”.
Le donne presenti applaudono, si guardano l’una con l’altra, si abbracciano (fino ad ora sono registrate 3.259 donne e “29 bambini”, da 49 paesi, perché Catalogna e Paesi Baschi sono conteggiati separatamente rispetto alla Spagna).
“La cosa più importante è la battaglia politica perché non vogliamo più violenza. Chiarisco: se i dannati imprenditori vogliono venire qui a pretendere, a comandare, con il Treno Maya che ci piomba addosso. Non vogliamo la violenza, ecco perché stiamo rilasciando questa dichiarazione. Non lo permetteremo e ci difenderemo: se ci provocano e vogliono la violenza, dovremo difenderci”, spiega Lucia.
Autodifesa
Forse è per questo che i seminari di autodifesa sono molto richiesti, sia durante l’addestramento mattutino che durante i dibattiti. Le donne che li realizzano e condividono questi saperi assicurano che l’autodifesa inizia nel modo in cui ti mostri al mondo, in come ti poni e come lo affronti.
Parlano di rafforzare il corpo, di essere consapevoli della propria corporeità. Di come saper urlare a come fermare la violenza con uno sguardo, con il corpo, come registrare cosa ti succede intorno per capire come difenderti, individualmente e collettivamente. Dell’importanza di sapere da dove possiamo agire, essere consapevoli delle nostre capacità. Su come difenderci, innanzitutto dai nostri stessi machismi, e poi da quelli che ci circondano.
María de Jesús Patricio, portavoce del Consiglio Indigeno di Governo, sottolinea l’importanza della difesa: “Siamo donne che hanno bisogno della terra, abbiamo bisogno di mangiare, di medicine. Quindi abbiamo sempre bisogno di ciò che ci dà la vita, che è la Terra. Il giorno in cui ci stacciamo dalla terra, quel giorno siamo soli e isolati”.
Claudia Nuñez, istruttrice dell’arte marziale coreana Hwa Rang Do, spiega che è importante “difendersi in modo che il proprio ambiente guarisca”. Poi chiarisce: “L’autodifesa non è essere violente, è avere la sicurezza che starai bene. È essere una persona migliore ogni giorno. Sapendo che ti alleni per non essere l’ennesima vittima”.
Le giovani zapatiste lo dicono in lingua Tseltal: scol tayel.
MARIA FERNANDA
III. Non siamo tutte, ma non siamo sole
Il Secondo Incontro delle Donne in Lotta è un abbraccio del Caracol per le donne che ci partecipano. Le zapatiste aprono uno spazio per denunciare le violenze. Una ad una, donne di diverse latitudini ed età denunciano le violenze subite alle quali seguono abbracci e grida collettive di sostegno; alcuni da parte di perfette sconosciute, altri da parte delle loro amiche. Abbracci che nascono dal voler dare affetto a quella donna che ha aperto il proprio cuore. Le testimonianze, dure, si susseguono senza sosta:
Sto cercando di vivere senza l’abuso subìto… Non importa quante volte te lo ripeti, finisce sempre per tornare a galla… Volevo solo divertirmi, ma uno stronzo ha detto: Ah, mi voglio divertire con lei!… Non sono io ad aver sbagliato… Non sei sola!… Non è stato un suicidio… Io ti credo!… Finché non vedrò il corpo di mia figlia, mia figlia vive… Sono sempre le donne a ribellarsi insieme… “Non una di meno” è proprio per sostenerci, nessuna esclusa. Sosteniamoci a vicenda … Non siamo tutte, ma non siamo sole … Riempirmi con tutta la vostra forza… Finché non avremo cambiato questo sistema, finché non lo avremo estirpato alla radice…
A differenza del primo, svoltosi nel marzo del 2018, in questo incontro le zapatiste non hanno organizzato seminari o conferenze. Il primo giorno hanno annunciato la creazione un tavolo sulle denunce per dare spazio all’ascolto, il secondo giorno è stato dedicato alla condivisione di idee ed esperienze per porre fine alla violenza contro le donne e il terzo è stato dedicato ad attività ludiche, come canti, esibizioni, murales e partite di calcio. Ma le zapatiste hanno messo in chiaro che erano le partecipanti a dover gestire le attività.
Gli incontri, sempre in trasformazione
Araceli Osorio, madre di Lesvy Berlín Osorio, dice che le piace seguire i messaggi delle zapatiste. Ogni anno sono diversi. Per lei, il messaggio di questo incontro è un invito all’autogestione e all’autonomia: “È la caratteristica di questo incontro. L’anno scorso ci hanno detto quali erano gli spazi, le attività e gli orari. Questa volta ci hanno lasciato così, della serie: ‘Questi sono gli spazi, gestiteli’.”.
Il rischio di riprodurre lo sfruttamento
Berenice Torres, arrivata in Chiapas dall’Hidalgo [stato messicano a nord di Città del Messico – ndt] ed entrata a far parte di una commissione di donne che raccoglieva e differenziava i rifiuti, ritiene che il movimento delle donne manchi ancora di collettività e sorellanza. Le attività di cura (cucina, pulizia dei bagni e raccolta dei rifiuti) sono state delegate alle zapatiste.
“Ci hanno aperto le porte e noi stiamo rispondendo come l’ultima volta (il primo incontro). La disponibilità delle compagne si stava trasformando in servitù. Abbiamo visto quante di loro ci servivano. Penso che dovremmo organizzare tra di noi le attività di pulizia dei piatti e dei bagni, ma questo processo ha ancora molta strada davanti”.
Un’altra differenza con il primo incontro è stata la convivenza con le donne zapatiste:
“L’incontro è sempre uno spazio per confrontarsi come donne ma anche per conoscere il modo di vivere delle zapatiste. Penso che in questo incontro non siamo riuscite a vedere tutto quello che avevamo visto nel primo incontro, ed era incentrato più sulle esperienze a livello nazionale e internazionale. In ogni caso, è bello avere uno spazio dove potersi esprimere”.
Elena, del Caracol 11 Tulan Ka’u, spiega che a questo incontro hanno partecipato meno compagne perché molte stanno lavorando nei nuovi caracol. In totale, dai vecchi caracol, hanno partecipato 70 donne e da quello da cui proviene lei, il numero 11, ne sono arrivate 26.
L’obiettivo
Esther, del Caracol 7 Jacinto Canek, spera che questo incontro serva per portare la lotta delle donne sempre in più luoghi.
“Sappiamo che molte donne subiscono violenza, non c’è rispetto. Il nostro obiettivo zapatista è unire la nostra lotta, unire la nostra voce, dobbiamo lavorare insieme per ottenere la libertà delle donne”.
Ha 24 anni e una sua esperienza sull’argomento: “A volte ho frequentato ragazzi del genere ma poi vedevo il loro atteggiamento e come mi trattavano. Dico che era machismo perché quando mi ha chiedevano dove stessi andando, mi dicevano di non uscire. Penso che fosse machismo perché pensavano che non abbia diritto ad uscire, ma dopo aver visto come si comportavano, li ho lasciati. Facevamo parte dell’organizzazione e abbiamo deciso che non vogliamo essere trattate come fanno i nostri genitori. Le donne non avevano il diritto di uscire, di studiare, di partecipare agli incontri. Una donna doveva essere sottomessa, stare con i suoi figli. È altro quello che vogliamo. Adesso le donne possono ricoprire incarichi di coordinamento, nelle Giunte di Buon Governo, guidare”.
Dell’incontro, la giovane donna dice: “La cosa più importante è che è stata una condivisione, è che stiamo facendo uno scambio e anche voi ne traete altri insegnamenti, ma speriamo che vi piaccia quello che condividiamo. Anche se si è trattato soltanto di una o due parole, spero che le portiate nei vostri cuori e le mettiate in pratica anche nei vostri spazi. Sono emozionata, ci avete valorizzato, siamo in tante. Pensavamo che per svolgere un incontro simile fosse necessaria la presenza di uomini che lavorassero, ma abbiamo visto che possiamo farlo anche da sole. Le donne stanno imparando, ci stiamo organizzando”.
Nell’incontro confluivano varie lotte, ma la più evidente è la lotta per la vita delle donne: un dibattito sui femminicidi e le sparizioni, un ballo collettivo, un piccolo corteo notturno e la presentazione di due brevi documentari realizzati a Chimalhuacán [città a nord di Città del Messico – ndt].
Si sentono le voci delle donne che hanno perso le figlie: Araceli Osorio, madre di Lesvy Berlin; Irinea Buendía, madre di Mariana Lima Buendía; Patricia Becerril, madre di Zyanya Figueroa Becerril (e che condivide le istruzioni per l’abbraccio del Caracol); Lidia Florencio, madre di Diana Velázquez Florencio; Sacrisanta Mosso, madre di Karen ed Erick Alvarado Mosso; Gilberta Mendoza, zia di Aideé Mendoza, e Lourdes Arizmendi, madre di Norma Dianey García, scomparsa a Chimalhuacán da quasi due anni.
“È la prima volta che vengo in questo posto. Quando sono arrivata, avevo molte emozioni contrastanti. Vengo dalla provincia, dallo stato di Morelos [a sud di Città del Messico – ndt], dalla terra in cui è nato il generale Zapata, con grande orgoglio e grande onore. Mio nonno era zapatista ed era nei ranghi del generale Zapata e ci ha insegnato cos’è la giustizia. Per questo siamo venute qui, per chiedere giustizia e giustizia per il caso di mia figlia Mariana”, dice Irinea Buendía.
“Sono venuta con l’aspettativa, credo anche voi, di cambiare tutto quello che stiamo vivendo, perché le nostre figlie e le nostre nipoti non meritano di continuare a subire questo tipo di violenze. Spero che ce ne rendiamo conto perché non riguarda soltanto una singola storia, non riguarda soltanto noi che abbiamo subito tanta violenza e alle quali hanno portato via le proprie figlie. So che è molto difficile mettersi d’accordo perché ci sono molti interessi in gioco, ma dobbiamo assolutamente fare qualcosa, questo è il messaggio che posso dirvi”.
Nello stesso forum, Araceli Osorio chiede alle presenti: “L’impegno più grande che vi chiedo è che viviate, senza paura, per loro. Così, vivrete con gioia portandole nella vostra memoria”.
DANIELA
IV. Il (dis)incontro e il compito
La strada verso gli altri mondi possibili è costeggiata da bottiglie di Coca-Cola. Sono sette chilometri, da Altamirano al caracol, pieni di immondizia ai lati della strada.
“Hanno smesso di venire a prenderla [in tutto il municipio] molto tempo fa”, mi racconta una donna che porta le pentole per i tamales [involtini di farina di mais ripieni di carne – ndt] ad Altamirano.
Una conoscente di questi villaggi mi dice che non sono gli zapatisti a lasciare la spazzatura. Quello che succede “è che c’è divisione tra le comunità”.
Questo è chiaro, perché da San Cristóbal de las Casas a qui ci sono anche molti cartelloni di “Sembrando Vida” [“Seminando Vita” – ndt], il progetto di punta del governo guidato da Andrés Manuel López Obrador, quello che lui chiama Quarta Trasformazione della vita pubblica e che qui, a questo incontro, viene messa in discussione ogni giorno.
Ma questa spazzatura è solo la prima di diverse immagini che mi suscitano emozioni provate nel territorio zapatista, nel quale non facevo ritorno da 13 anni.
Contraddizioni
L’ecologia è un tema. Nel secondo giorno dell’incontro, alcune donne fanno notare al microfono che sprechiamo molta acqua e che la spazzatura non viene differenziata. La ascolto mentre la Comandanta Insurgente Hortensia ci serve carcadè in un bicchiere di polistirolo (perché abbiamo lasciato i nostri bicchieri nelle tende) e la responsabile del comedor dove facciamo colazione, vicino alla radio, ci dice di buttare gli avanzi di cibo su un fianco della collina. “Poi dopo viene Chucho (un cane) a mangiarlo”, continua.
Ma sulla collina ci sono plastica e sacchetti di patatine che non credo Chucho mangerà. Non posso fare a meno di pensare che per poter separare la spazzatura, bisogna prima avere cibo in casa.
La seconda cosa che mi preoccupa è l’approccio di genere. Perché se c’è qualcosa di chiaro in questo incontro femminista, è che ci sono molti modi di intendere le priorità della lotta delle donne.
È riassunto dalle espressioni delle zapatiste a fine giornata: “In gran parte riguarda l’aborto, ma speriamo parleranno anche del Treno Maya”.
– Da voi non ci sono aborti?
– No. Non ci servono.
No, hanno figli da quando hanno 18 anni. Come Jimena, una ragazza di 24 anni che viene con il suo bambino di due anni e dice che suo figlio di sei anni è meno fastidioso.
Per questo, per loro non è un problema che lo spettacolo di apertura e di chiusura dell’incontro, che vede protagoniste le combattenti, abbia la musica di “17 años”, il brano di cumbia che tante giovani di Città del Messico vogliono far sparire dal pianeta.
La musica è un altro tema. Il primo giorno ci siamo svegliate con cumbie machiste, abbiamo continuato con canzoni femministe (cantate soprattutto dalle sudamericane) e concluso con un concerto improvvisato che spaziava da Mon Laferte [cantante cilena molto vicina al movimento femminista – ndt] (presente all’incontro) a “Sarò la gatta sotto la pioggia e miagolerò per te” [brano di Rocío Dúrcal, cantante spagnola di musica popolare messicana – ndt].
Il secondo giorno, la festa inizia con un perreo, ballo con una forte carica sessuale, nel quale canzoni reggaeton che rasentano la misoginia radunano il gruppo più numeroso di giovani, mentre una manciata di donne guarda documentari sull’organizzazione dei popoli.
Il mio terzo problema è la scarsa integrazione tra ospiti e ospitanti. Ad eccezione delle giornaliste, pochissime partecipanti parlano con le donne indigene, che osservano silenziosamente gli slogan e i balli. Alcune, incuriosite, si avvicinano ad ascoltare ma si tengono a distanza dalle attività. La maggior parte si occupa della cucina o dei bagni.
Il quarto problema riguarda proprio noi donne che vogliamo prenderci cura l’una dell’altra. Il microfono si apre alle testimonianze e, prevedibilmente, la giornata si trasforma in una grande catarsi. E dopo? Chi chiuderà i vasi di Pandora rimasti aperti? Chi rinchiuderà i demoni che ne sono usciti?
“Vedo molte denunce, quello che non vedo è la strategia”, mi dice Laura Carlsen, presente con sua figlia nata 14 giorni dopo l’Insurrezione del 1994.
Il cambiamento
Sono felice di aver incontrato lei e gli altri volti che hanno accompagnato i primi anni dell’Insurrezione. Mi rendo conto di non aver visto, né qui né ai festival di cinema e ballo di poche settimane fa, altre compagne che hanno partecipato alla Marcia con 1.111 città a Città del Messico nel 1997 o alla Marcia del Colore della Terra nel 2001, oppure alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona. Alcune sono morte, altre sono con la 4T [Quarta Trasformazione della vita pubblica – ndt], altre fanno soap opera e documentari. Quelle che vengono adesso sono giornaliste giovani, che al tempo dell’Insurrezione non avevano più di due anni. La maggior parte è venuta per conto proprio, usando le ferie, attratta dal movimento delle donne.
La quinta cosa che mi genera sentimenti contrastanti viene dalle stesse zapatiste, che tessono un discorso in difesa delle donne a partire da una frase: “Siamo anticapitaliste e antipatriarcali”.
Mentre parla, alcune ragazze comprano Coca-Cola e patatine in un negozio di alimentari.
No, non è uno spazio anticapitalista. Certamente è un posto dove si può comprare un caffè a 5 pesos, pane a 2 pesos e pannocchie a 6 pesos, ma si paga in denaro. La frutta e il pane vengono portati da Altamirano, e i comedores hanno entrate differenziate a seconda di quello che vendono.
Lo scambio di prodotti sembra una fiera di paese, dove le invitate passeggiano con uno strano look da donna zapatista (stivali, camicia della causa, bandana, berretto ricamato e orecchini con passamontagna) che non assomiglia per niente alle gonne arrotolate, ai sandali di plastica e alle camicette con balze indossate dalle indigene incappucciate…
Jimena mi racconta che ogni gruppo si è organizzato per vendere i propri prodotti ma che non hanno guadagnato molto perché, sapendo dell’arrivo di tante persone, ad Altamirano avevano triplicato i prezzi.
Eppure, è facile innamorarsi delle donne zapatiste:
Sono piccole (non superano il metro e mezzo), timide e hanno una voce dolce che allunga le vocali.
Scoprono il mondo come Rebeca, una donna che ha già dei figli adolescenti e che, vedendo il mio interesse nella preparazione dei tamales, chiede se anche nella mia città si cucinano, e mi dice che lei non è mai stata in città, e che è nemmeno stata nella “città di Ocosingo”.
È facile voler bene a queste ragazze di 15 anni che portano frecce come Katniss Everdeen [personaggio protagonista della saga di The Hunger Games – ndt] (se c’è qualcosa che non cambia negli zapatisti è la loro inventiva simbolica), che camminano tra le bancarelle dove si vende merce proveniente da Coyoacán [suddivisone amministrativa di Città del Messico – ndt] chiedendo mascherine organiche, che muoiono dal ridere quando toccano la testa rasata di mia figlia o che, ogni giorno alla stessa ora, camminano ordinatamente per il cibo con i loro contenitori e bicchieri.
È facile provare empatia per le donne che interrompono uno spettacolo per le donne assassinate per chiedere al microfono, per favore, di smettere di fumare marijuana perché qui le donne zapatiste non accettano droghe.
Ci aiutano a caricare le nostre tende all’arrivo e con le loro dolci voci ci dicono che siamo le benvenute.
Ogni loro intervento fa urlare le ospiti con quel grido apache che ha cambiato la festa del movimento femminile. Le quattro proposte al termine dell’incontro (riflettere sui dibattiti, difendere tutte le donne vittime di violenza e costruire un’azione globale con un fiocco nero per l’8 marzo) sono accolte all’unanimità da una piazza poco interessata al dibattito.
Quello che non è tanto chiaro è che questo messaggio zapatista arrivi a tutte.
– Compa, è cambiato qualcosa con questo incontro?, chiede una giornalista alla donna del “Tavolo delle Critiche”.
– Sì, l’organizzazione e lo zapatismo ci hanno cambiate.
– Cosa avete imparato?
– Chi deve imparare siete voi, ecco perché c’è il tavolo delle critiche, in modo che possiate dirci quando vedete qualcosa che non va e comunicarci quando vedete qualcosa di buono.
Alla fine, il bilancio è positivo: si tratta del primo incontro interamente organizzato dalle donne zapatiste. Fungono da autiste, cuoche, organizzatrici, elettriciste. Un’esperienza importante per i ranghi zapatisti che questo mercoledì festeggeranno i loro 26 anni.
Tuttavia, come in tutte le feste, i padroni di casa non vi partecipano.
Quello che hanno fatto è stato mettere a disposizione lo spazio affinché altre donne potessero avere, per tre giorni, uno spazio sicuro per incontrarsi.
Per il futuro, la palla è nella nostra metà campo.
FB : LAPAZ ITALIA